La cena nella Sala Grande non fu un’esperienza piacevole per Harry. La notizia della sua urlata con la Umbridge aveva viaggiato con straordinaria rapidità anche per gli standard di Hogwarts. Quando si sedette a mangiare con Ron e Hermione udì tutto un sussurrare attorno. Il buffo era che nessuno sembrava preoccuparsi che lui sentisse che cosa dicevano. Al contrario era come se sperassero che si arrabbiasse e ricominciasse a urlare, in modo da poter ascoltare la sua storia di prima mano.
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«Dice che ha visto assassinare Cedric Diggory…»
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«Sostiene di aver combattuto con Voi-Sapete-Chi…»
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«Ma andiamo…»
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«A chi crede di darla a bere?»
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«Per favooore…»
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«Quello che non capisco» disse Harry con voce spezzata, posando coltello e forchetta (le mani gli tremavano troppo), «è perché hanno creduto tutti a questa storia due mesi fa quando gliel’ha raccontata Silente…»
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«Harry, non sono sicura che sia così» disse Hermione cupa. «Oh, andiamo via di qui».
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Sbatté anche lei sul tavolo coltello e forchetta; Ron guardò con desiderio la torta di mele lasciata a metà, ma li seguì. Gli altri ragazzi fissarono tutti e tre mentre uscivano dalla Sala.
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«Che cosa vuol dire che non sei sicura che sia così?» chiese Harry a Hermione quando ebbero raggiunto il pianerottolo del primo piano.
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«Senti, tu non sai com’è andata dopo» mormorò Hermione.
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«Tu sei arrivato in mezzo al prato con il cadavere di Cedric… nessuno di noi ha visto che cos’è successo nel labirinto… avevamo solo la parola di Silente che Tu-Sai-Chi era tornato e aveva ucciso Cedric e lottato con te».
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«Ed è la verità!» esclamò Harry.
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«Lo so, Harry, quindi per favore vuoi smetterla di aggredirmi?» disse Hermione stancamente. «Solo che prima che la verità potesse entrare nella testa a tutti, sono andati a casa per l’estate e hanno passato due mesi a leggere che tu sei un pazzo e Silente è rimbambito!»
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La pioggia picchiava sulle finestre dei corridoi deserti che portavano alla Torre di Grifondoro. Harry aveva la sensazione che il primo giorno fosse durato una settimana, ma aveva ancora una montagna di compiti da fare prima di andare a dormire. Un dolore sordo e pulsante stava aumentando sopra il suo occhio destro. Guardò fuori da una finestra lavata dalla pioggia, verso il parco buio, mentre svoltavano nel corridoio della Signora Grassa. Nella capanna di Hagrid ancora nessuna luce.
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«Mimbulus mimbletonia» disse Hermione prima che la Signora Grassa lo chiedesse. Il ritratto si aprì e i tre varcarono il buco.
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La sala comune era quasi vuota; quasi tutti erano ancora giù a cena. Grattastinchi si srotolò, balzò giù da una poltrona e trotterellò verso di loro facendo le fusa, e quando Harry, Ron e Hermione portarono le loro tre poltrone preferite vicino al fuoco balzò lieve in grembo a Hermione e vi si appallottolò come un rosso cuscino peloso. Harry guardò le fiamme; si sentiva svuotato e sfinito.
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«Com’è possibile che Silente l’abbia permesso?» gemette Hermione all’improvviso, facendo trasalire Harry e Ron; Grattastinchi balzò via, offeso. Lei per la rabbia prese a pugni i braccioli della poltrona, tanto che pezzetti d’imbottitura sfuggirono dai buchi. «Come può permettere che quella donna orribile sia nostra insegnante? E nell’anno dei G.U.F.O., per di più!»
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«Be’, non abbiamo mai avuto dei grandi insegnanti di Difesa contro le Arti Oscure, no?» disse Harry. «Sai com’è, Hagrid ce l’ha spiegato, nessuno vuole quel posto; dicono che ha il malocchio».
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«Sì, ma assumere qualcuno che si rifiuta categoricamente di lasciarci fare magie! A che gioco sta giocando Silente?»
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«E lei sta cercando di convincere la gente a fare la spia» disse Ron cupo. «Avete sentito quando ci ha chiesto di andare da lei, se qualcuno ci dice che Voi-Sapete-Chi è tornato?»
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«È ovvio che è qui per spiarci, se l’ha mandata Caramell» sbottò Hermione.
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«Non ricominciate a litigare» disse Harry stancamente, mentre Ron apriva la bocca per ribattere. «Non possiamo… facciamo quei compiti, togliamoceli dai piedi…»
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Recuperarono le borse dei libri e tornarono alle poltrone vicino al fuoco. Gli altri ragazzi cominciavano a tornare dalla cena. Harry distolse il viso dal buco del ritratto, ma sentì lo stesso gli sguardi su di sé.
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«Facciamo prima Piton?» chiese Ron, intingendo la piuma nell’inchiostro. «Le proprietà… della pietra di luna… e i suoi usi… nella preparazione di pozioni…» recitò, scrivendo le parole in cima alla sua pergamena. «Ecco». Sottolineò il titolo, poi guardò Hermione, in attesa.
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«Allora, quali sono le proprietà della pietra di luna e i suoi usi nella preparazione di pozioni?»
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Ma Hermione non stava ascoltando; cercava invece di scrutare in fondo alla stanza, dove Fred, George e Lee Jordan erano seduti al centro di un gruppo di bambini del primo anno dall’aria innocente, tutti intenti a masticare qualcosa che sembrava essere uscito da un grosso sacchetto di carta in mano a Fred.
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«No, mi dispiace, questo è troppo» disse. Si alzò, decisamente furiosa. «Andiamo, Ron».
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«Io… cosa?» fece Ron, cercando di prendere tempo. «No… dài, Hermione… non possiamo sgridarli perché regalano dei dolci».
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«Sai perfettamente che quelli sono pezzi di Torrone Sanguinolento o… Pasticche Vomitose, o…»
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«Pasticcetti Svenevoli?» suggerì Harry piano.
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Uno dopo l’altro, come se fossero stati colpiti sulla testa da un martello invisibile, i bambini del primo anno si afflosciarono svenuti sulle poltrone; alcuni scivolarono per terra, altri si limitarono a ciondolare dai braccioli, le lingue penzoloni. Quasi tutti i presenti ridevano; Hermione, tuttavia, raddrizzò le spalle e marciò diritta verso il punto dove Fred e George, reggendo delle tavolette, osservavano attentamente i piccoli del primo anno privi di sensi. Ron si alzò a metà dal suo posto, rimase lì indeciso per qualche istante, poi borbottò a Harry «Ha tutto sotto controllo» prima di sprofondare più giù che poteva nella poltrona, per quanto lo consentiva la sua figura allampanata.
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«Basta così!» gridò Hermione a Fred e George; entrambi alzarono lo sguardo, un po’ sorpresi.
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«Sì, hai ragione» disse George e annuì, «questo dosaggio sembra abbastanza forte, vero?»
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«Ve l’ho detto stamattina, non potete sperimentare le vostre schifezze sugli studenti!»
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«Li paghiamo!» obiettò Fred indignato.
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«Non me ne importa, potrebbe essere pericoloso!»
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«Sciocchezze» disse Fred.
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«Calmati, Hermione, stanno bene!» la rassicurò Lee, passando da un ragazzino all’altro e infilando dei dolcetti viola nelle bocche aperte.
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«Sì, guarda, si stanno riprendendo» disse George.
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Alcuni bambini in effetti si muovevano. Parecchi sembravano così spaventati di ritrovarsi distesi a terra, o penzoloni dalle poltrone, che Harry fu certo che Fred e George non li avevano avvertiti dell’effetto dei dolciumi.
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«Ti senti bene?» chiese George gentilmente a una bambina minuscola con i capelli scuri distesa ai suoi piedi.
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«Io… credo di sì» rispose lei, tremante.
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«Ottimo» esclamò Fred allegro, ma un attimo dopo Hermione gli aveva strappato di mano sia la tavoletta che il sacchetto di Pasticcetti Svenevoli.
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«Non è ottimo!»
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«Certo, sono vivi, no?» disse Fred arrabbiato.
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«Non puoi farlo; e se qualcuno fosse stato male sul serio?»
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«Non li faremo star male, l’abbiamo già sperimentato su di noi, è solo per vedere se tutti reagiscono allo stesso…»
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«Se non la smettete, io vi…»
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«Ci metterai in castigo?» chiese Fred in tono da voglio-proprio-vedere-se-ci-provi.
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«Ci farai scrivere cento volte la stessa frase?» incalzò George con un sorrisetto.
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Gli altri studenti ridevano. Hermione si erse in tutta la sua statura; i suoi occhi erano ridotti a fessure e i capelli cespugliosi sembravano crepitare di elettricità.
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«No» rispose, la voce vibrante di rabbia, «ma scriverò a vostra madre».
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«Non dici sul serio» boccheggiò George orripilato, facendo un passo indietro.
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«Oh, sì» rispose Hermione. «Non posso impedirvi di mangiare quelle stupide cose, ma non dovete darle a quelli del primo anno».
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Fred e George erano atterriti. Era chiaro che consideravano la minaccia di Hermione un colpo basso. Con un ultimo sguardo severo, lei rificcò la tavoletta e il sacchetto di Pasticcetti tra le braccia di Fred, e tornò a passi rigidi alla sua poltrona vicino al fuoco.
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Ron era scivolato così in basso che il suo naso era quasi allo stesso livello delle ginocchia.
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«Grazie per il sostegno, Ron» disse Hermione acida.
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«Te la sei cavata benissimo da sola» borbottò Ron.
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Hermione fissò il foglio di pergamena intonso per qualche istante; poi disse, tesa: «Oh, è inutile, adesso non riesco a concentrarmi. Vado a dormire».
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Spalancò la borsa; Harry pensò che stesse per mettere via i libri, ma invece estrasse due oggetti informi di lana, li posò con cautela su un tavolo vicino al fuoco, li coprì con qualche pezzo di pergamena stropicciata e una piuma spezzata e si ritrasse per ammirare l’effetto.
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«Che cosa stai facendo, nel nome di Merlino?» chiese Ron, scrutandola come se temesse per la sua salute mentale.
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«Sono berretti per elfi domestici» spiegò lei sbrigativa, riempiendo la borsa di libri. «Li ho fatti quest’estate. Senza magia sono lenta a lavorare ai ferri, ma adesso che sono tornata a scuola dovrei riuscire a farne molti di più».
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«Lasci in giro i berretti per gli elfi domestici?» domandò Ron lentamente. «E li copri di immondizia?»
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«Sì» rispose Hermione in tono di sfida, gettandosi la borsa sulle spalle.
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«Non vale» disse Ron arrabbiato. «Stai cercando di indurii a prendere i berretti con l’inganno. Li liberi quando potrebbero non volerlo».
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«Ma certo che vogliono essere liberi!» ribatté subito Hermione, anche se stava arrossendo. «Non provare a toccare quei berretti, Ron!»
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E se ne andò. Ron aspettò che fosse sparita nei dormitori femminili, poi tolse l’immondizia dai berretti di lana.
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«Almeno dovrebbero vedere quello che tirano su» disse con fermezza. «Comunque…» arrotolò la pergamena sulla quale aveva scritto il titolo del tema per Piton, «è inutile cercare di finirlo adesso, non ci riesco senza Hermione. Non ho la più pallida idea di che cosa bisogna fare con la pietra di luna, e tu?»
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Harry scosse il capo, e nel farlo si accorse che il dolore alla tempia destra stava peggiorando. Pensò al lungo tema sulle guerre dei giganti e il dolore lo trafisse acuto. Sapendo benissimo che il mattino dopo avrebbe rimpianto di non aver finito i compiti quella sera, ammucchiò i libri dentro la borsa.
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«Vado a dormire anch’io».
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Avviandosi alla porta che conduceva ai dormitori passò accanto a Seamus, ma non lo guardò. Harry ebbe la fugace impressione che Seamus avesse aperto la bocca per parlare, ma accelerò e raggiunse la pace confortevole della scala a chiocciola di pietra senza dover sopportare altre provocazioni.
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Il giorno dopo si annunciò plumbeo e piovoso come quello precedente. A colazione Hagrid mancava ancora dal tavolo degli insegnanti.
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«Ma, in compenso, oggi niente Piton» disse Ron incoraggiante.
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Hermione fece un gran sbadiglio e si versò del caffè. Sembrava vagamente compiaciuta per qualcosa, e quando Ron le chiese che cos’aveva da essere cosi contenta, si limitò a dire: «I berretti sono spariti. Pare che gli elfi domestici vogliano la libertà, dopotutto».
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«Non ci scommetterei» le rispose Ron, tagliente. «Non so se contano come vestiti. A me non sembravano affatto dei berretti, piuttosto delle vesciche di lana».
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Hermione non gli rivolse la parola per tutta la mattina.
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Le due ore di Incantesimi furono seguite da due ore di Trasfigurazione. Sia il professor Vitious che la professoressa McGranitt passarono i primi undici minuti della loro lezione a fare una predica alla classe sull’importanza dei G.U.F.O.
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«Quello che dovete ricordare» disse il piccolo professor Vitious con voce gracchiante, appollaiato come sempre su una pila di libri per riuscire a vedere oltre la cattedra, «è che questi esami possono infuenzare il vostro futuro per molti anni a venire! Se non avete ancora pensato seriamente alla vostra carriera, ora è il momento di farlo. E nel frattempo, temo che lavoreremo più che mai per garantire che tutti voi siate all’altezza del vostro talento!»
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Poi passarono più di un’ora a ripassare gli Incantesimi di Appello, che secondo il professor Vitious sarebbero senz’altro venuti fuori all’esame di G.U.F.O., e lui completò la lezione assegnando loro il più gran quantitativo di compiti mai dati per Incantesimi.
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A Trasfigurazione fu lo stesso, se non peggio.
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«Non potete superare un G.U.F.O.» disse la professoressa McGranitt minacciosa, «senza una seria applicazione, esercizio e studio. Non vedo ragione per cui qualcuno in questa classe non dovrebbe ottenere un G.U.F.O. in Trasfigurazione, a patto che lavori sodo». Neville fece un versetto triste e incredulo. «Sì, anche tu, Paciock» continuò la professoressa McGranitt. «Non c’è niente che non vada nel tuo lavoro, a parte la mancanza di sicurezza. Quindi… oggi cominceremo gli Incantesimi Evanescenti. Sono più facili degli Incantesimi di Evocazione, che non dovreste affrontare fino al livello del M.A.G.O., ma sono sempre tra le magie più ardue in cui verrete valutati al G.U.F.O.».
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Aveva ragione; Harry trovò gli Incantesimi Evanescenti tremendamente difficili. Alla fine delle due ore né lui né Ron erano riusciti a far sparire le lumache con le quali si stavano esercitando, anche se Ron dichiarò speranzoso che la sua gli sembrava un po’ più pallida. Hermione, d’altra parte, fece svanire con successo la sua lumaca al terzo tentativo, ottenendo un bonus di dieci punti per Grifondoro dalla professoressa McGranitt. Fu la sola a non avere compiti; a tutti gli altri venne ordinato di esercitarsi subito nell’incantesimo, pronti per un nuovo tentativo con le lumache il pomeriggio seguente.
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Con un vago senso di panico per la catasta di compiti che li aspettava, Harry e Ron passarono l’ora di pranzo in biblioteca a indagare sugli usi della pietra di luna nella preparazione delle pozioni. Ancora arrabbiata per l’insulto di Ron ai suoi berretti di lana, Hermione non si unì a loro. Al momento di Cura delle Creature Magiche, nel pomeriggio, a Harry faceva di nuovo male la testa.
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La giornata era diventata fresca e ventosa e, attraversando il prato che scendeva fino alla capanna di Hagrid al limitare della foresta proibita, sentirono qualche rara goccia di pioggia sul viso. La professoressa Caporal aspettava la classe a una trentina di metri dalla capanna; davanti a lei c’era un lungo tavolo su cavalletti carico di bastoncini. Harry e Ron si stavano avvicinando, quando un alto scoppio di risate risuonò alle loro spalle: si voltarono e videro Draco Malfoy che avanzava, circondato dalla solita banda di compari di Serpeverde. Doveva appena aver detto qualcosa di molto divertente, perché Tiger, Goyle, Pansy Parkinson e gli altri continuarono a sghignazzare di cuore mentre si radunavano attorno al tavolo; e a giudicare da come lo guardavano, Harry indovinò l’argomento della battuta senza troppe difficoltà.
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«Ci siete tutti?» abbaiò la professoressa Caporal. «Allora cominciamo. Chi sa dirmi come si chiamano questi?»
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Indicò il mucchio di bastoncini davanti a sé. La mano di Hermione scattò in aria. Alle sue spalle, Malfoy fece l’imitazione di lei con i denti sporgenti che saltava su e giù ansiosa di rispondere e Pansy Parkinson diede in una risata che si trasformò quasi subito in un urlo. I bastoncini sul tavolo balzavano in aria rivelandosi minuscole creature di legno simili a folletti, ciascuna dotata di braccia e gambe nodose e marroni, di due dita a rametto al termine di ciascuna mano e di una buffa faccia piatta di corteccia in cui luccicava un paio di occhi marrone scarafaggio.
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«Oooooh» fecero Calì e Lavanda, irritando profondamente Harry. Sembrava che Hagrid non avesse mai mostrato loro creature impressionanti; bisognava ammetterlo, i Vermicoli erano stati un po’ noiosi, ma le salamandre e gli Ippogrifi si erano rivelati decisamente interessanti e gli Schiopodi Sparacoda forse anche troppo.
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«Siate così gentili da abbassare la voce, ragazze!» esclamò imperiosa la professoressa Caporal, sparpagliando una manciata di quello che sembrava riso bruno tra le creature-stecco, che si gettarono subito sul cibo. «Allora… qualcuno sa come si chiamano? Signorina Granger?»
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«Asticelli» rispose Hermione. «Sono guardiani di alberi, di solito vivono sugli alberi da bacchette».
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«Cinque punti per Grifondoro» disse la professoressa Caporal. «Sì, questi sono Asticelli e, come giustamente dice la signorina Granger, di solito vivono sugli alberi il cui legno è di qualità da bacchette. Qualcuno sa che cosa mangiano?»
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«Onischi» rispose Hermione all’istante, il che spiegava come mai quelli che Harry aveva preso per chicchi di riso bruno si muovevano. «Ma anche uova di fata, se riescono a prenderle».
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«Brava, altri cinque punti. Allora, quando avete bisogno di foglie o di legna di un albero in cui risiede un Asticello, è saggio tenere pronta un’offerta di onischi per distrarlo o calmarlo. Possono non sembrare pericolosi, ma se si arrabbiano tenteranno di strapparvi gli occhi con le dita, che, come potete vedere, sono molto appuntite e nient’affatto desiderabili in zona pupille. Adesso accostatevi, prendete qualche onisco e un Asticello — uno ogni tre persone — e studiateli più da vicino. Voglio che ciascuno di voi prepari un disegno con le definizioni di tutte le parti del corpo per la fine della lezione».
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La classe si raggruppò attorno al tavolo. Harry fece il giro dall’altra parte in modo da trovarsi vicino alla professoressa Caporal.
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«Dov’è Hagrid?» le chiese, mentre tutti gli altri sceglievano gli Asticelli.
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«Non sono affari tuoi» rispose la professoressa Caporal secca, con lo stesso atteggiamento dell’ultima volta, quando Hagrid non si era presentato a lezione. Con un sorriso malevolo sul viso appuntito, Draco Malfoy si chinò di fronte a Harry e afferrò l’Asticello più grosso.
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«Forse» disse sottovoce, in modo che solo Harry potesse sentirlo, «quel deficiente si è fatto male sul serio».
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«Forse è quello che succederà a te, se non stai zitto» soffiò Harry da un angolo della bocca.
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«Forse si sta impicciando di cose troppo grosse per lui, se capisci cosa intendo».
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Malfoy si allontanò rivolgendo un sorrisetto mellifluo a Harry, che all’improvviso si sentì male. Malfoy sapeva qualcosa? Suo padre dopotutto era un Mangiamorte; aveva informazioni sul destino di Hagrid che non erano ancora giunte alle orecchie dell’Ordine? Fece di corsa il giro del tavolo per raggiungere Ron e Hermione, che erano accovacciati sull’erba poco lontano e cercavano di convincere un Asticello a restare fermo per poterlo disegnare. Harry prese piuma e pergamena, si accoccolò vicino a loro e riferì in un sussurro quello che Malfoy aveva appena detto.
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«Silente lo saprebbe, se fosse successo qualcosa a Hagrid» disse subito Hermione. «Farsi vedere preoccupati significa stare al gioco di Malfoy, fargli capire che non sappiamo bene che cosa sta succedendo. Dobbiamo ignorarlo, Harry. Ecco, tieni un momento l’Asticello, così riesco a disegnare la faccia…»
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«Sì». Dal gruppo più vicino si levò chiara la voce strascicata di Malfoy. «Mio padre ha parlato col Ministro un paio di giorni fa, sapete, e pare che sia proprio deciso a farla finita con l’insegnamento scadente in questo posto. Quindi, anche se quel deficiente troppo cresciuto si fa vedere di nuovo, probabilmente lo spediranno subito a fare i bagagli».
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«AHIA!»
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Harry aveva stretto l’Asticello così forte che quello si era quasi spezzato, e per vendicarsi gli aveva sferrato un gran colpo alla mano con le dita affilate, lasciandovi due tagli profondi. Harry mollò la presa. Tiger e Goyle già sghignazzavano all’idea che Hagrid venisse licenziato e risero ancora più forte quando l’Asticello fuggì a tutta velocità verso la foresta, un omino mobile di legno ben presto inghiottito fra le radici degli alberi. Quando la campana echeggiò lontana sul parco, Harry arrotolò il ritratto insanguinato dell’Asticello e marciò a Erbologia con la mano avvolta nel fazzoletto di Hermione e la risata di scherno di Malfoy che ancora gli risuonava nelle orecchie.
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«Se dice ancora una volta che Hagrid è un deficiente…» mormorò a denti stretti.
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«Harry, non attaccare briga con Malfoy, non dimenticare che adesso è un prefetto, potrebbe renderti la vita difficile…»
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«Accidenti, chissà come dev’essere, una vita difficile» commentò Harry, sarcastico. Ron rise, ma Hermione s’incupì. Insieme si trascinarono attraverso l’orto. Il cielo sembrava ancora incapace di decidere se voleva piovere o no.
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«Vorrei solo che Hagrid si spicciasse a tornare, tutto qui» disse Harry a bassa voce mentre si avvicinavano alle serre. «E non dire che quella Caporal è un’insegnante migliore!» aggiunse minaccioso.
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«Non ne avevo l’intenzione» rispose Hermione, tranquilla.
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«Perché non sarà mai brava come Hagrid» concluse Harry perentorio. Sapeva perfettamente di aver appena assistito a una lezione esemplare di Cura delle Creature Magiche e questo lo irritava.
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La porta della serra più vicina si aprì e ne uscirono alcuni studenti del quarto anno, compresa Ginny.
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«Ciao» disse allegramente passando. Qualche istante dopo, emerse Luna Lovegood, in coda al resto della classe, con una macchia di terra sul naso e i capelli legati in un nodo in cima alla testa.
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Quando vide Harry, i suoi occhi sporgenti parvero gonfiarsi per l’agitazione e andò dritta verso di lui. Molti dei compagni di Harry si voltarono incuriositi a guardare. Luna trasse un profondo respiro e poi dichiarò, senza nemmeno un ciao preliminare: «Credo che Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato è tornato e credo che tu hai combattuto contro di lui e gli sei sfuggito».
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«Ehm… bene» disse Harry imbarazzato. Luna portava a mo’ di orecchini quelli che sembravano due rapanelli arancioni, cosa che Calì e Lavanda sembravano aver notato, perché ridacchiavano tutte e due indicando i suoi lobi.
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«Potete anche ridere» Luna alzò la voce, evidentemente convinta che Calì e Lavanda ridessero per le sue parole invece che per i suoi accessorii, «ma la gente una volta credeva che non esistessero cose come il Cannolo Balbuziente o il Ricciocorno Schiattoso!»
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«Be’, avevano ragione, no?» disse Hermione in tono spiccio. «Il Cannolo Balbuziente o il Ricciocorno Schiattoso non esistono».
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Luna le lanciò uno sguardo incendiario e se ne andò furibonda, con i rapanelli che dondolavano all’impazzata. Calì e Lavanda non erano le sole a ululare dal ridere, ora.
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«Potresti evitare di offendere le sole persone che mi credono?» chiese Harry a Hermione quando entrarono in classe.
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«Oh, per l’amor del cielo, Harry, puoi avere di meglio di lei» disse Hermione. «Ginny mi ha raccontato tutto: a quanto pare, crede solo alle cose di cui non esiste alcuna prova. Be’, non mi aspetto altro dalla figlia del direttore del Cavillo».
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Harry pensò ai sinistri cavalli alati che aveva visto la notte del suo arrivo e che anche Luna aveva detto di vedere. Ebbe un attimo di sgomento. Aveva mentito? Ma, prima che potesse dedicare altri pensieri all’argomento, Ernie Macmillan gli si avvicinò.
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«Voglio che tu sappia, Potter» disse a voce alta e sicura, «che non sono solo gli strambi a crederti. Personalmente ti credo al cento per cento. La mia famiglia è sempre stata dalla parte di Silente, e io anche».
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«Ehm… grazie mille, Ernie» rispose Harry, colto alla sprovvista, ma compiaciuto. Ernie poteva anche essere pomposo all’occasione, ma Harry apprezzava profondamente un voto di fiducia da parte di uno senza rapanelli penzolanti dalle orecchie. Le parole di Ernie avevano cancellato il sorriso dalla faccia di Lavanda Brown, e quando Harry si voltò per parlare con Ron e Hermione colse l’espressione di Seamus, a un tempo confusa e spavalda.
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Nessuno si stupì quando la professoressa Sprite tenne un discorsetto sull’importanza dei G.U.F.O. Harry avrebbe preferito che i professori la smettessero; cominciava a provare un senso di ansia e confusione tutte le volte che ricordava quanti compiti doveva fare, sensazione che peggiorò drammaticamente alla fine della lezione, quando la professoressa Sprite assegnò un altro tema. Stanchi e intrisi del forte odore di cacca di drago, il fertilizzante preferito della Sprite, un’ora e mezza dopo i Grifondoro si avviarono a ranghi compatti verso il castello, e nessuno di loro parlò molto: era stata un’altra lunga giornata.
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Siccome Harry era affamato, e aveva la prima punizione con la Umbridge alle cinque, andò subito a cena senza passare a lasciare la borsa nella Torre di Grifondoro, in modo da buttar giù qualcosa prima di affrontare ciò che era in serbo per lui. Ma non aveva ancora raggiunto l’ingresso della Sala Grande, che una voce forte e rabbiosa urlò: «Ehi, Potter!»
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«E adesso che cosa c’è?» borbottò Harry stancamente, voltandosi per affrontare Angelina Johnson, che sembrava imbufalita.
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«Te lo dico io che cosa c’è» disse, marciando dritto fino a lui e picchiandogli forte il petto con l’indice. «Si può sapere come ti è saltato in mente di farti mettere in castigo per le cinque di venerdì?»
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«Che cosa?» disse Harry. «Perché… oh, sicuro, i provini per il Portiere!»
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«Adesso se lo ricorda!» ringhiò Angelina. «Non ti ho detto che volevo fare un provino con la squadra al completo, e trovare qualcuno che andasse d’accordo con tutti? Non ti ho detto che avevo prenotato apposta il campo di Quidditch? E adesso tu hai deciso che non ci sarai!»
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«Non l’ho deciso io!» protestò Harry, ferito dall’ingiustizia di quelle parole. «Ho preso un castigo da quella Umbridge solo perché le ho detto la verità su Tu-Sai-Chi».
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«Be’, adesso fili da lei e le chiedi di lasciarti libero venerdì» gli intimò Angelina, «e non m’importa come. Dille che Tu-Sai-Chi è un prodotto della tua immaginazione, se credi, basta che tu faccia in modo di esserci!»
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E si allontanò di fretta.
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«Sapete una cosa?» disse Harry a Ron e Hermione quando entrarono nella Sala Grande. «Credo che sarà meglio verificare col Puddlemere United se per caso Oliver Baston è stato ucciso durante un allenamento, perché pare che Angelina incarni il suo spirito».
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«Secondo te quante probabilità ci sono che la Umbridge ti lasci libero venerdì?» chiese Ron scettico, mentre si sedevano al tavolo di Grifondoro.
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«Meno di zero» rispose Harry tetro. Si fece scivolare sul piatto delle costolette d’agnello e cominciò a mangiare. «Meglio provare, però, no? Mi offrirò di stare in punizione altri due giorni, non so…» Mandò giù un boccone di patate e aggiunse: «Spero che non mi trattenga troppo, stasera. Lo sapete che dobbiamo scrivere tre temi, esercitarci negli Incantesimi Evanescenti per la McGranitt, trovare un controincantesimo per Vitious, finire il disegno dell’Asticello e cominciare quello stupido diario dei sogni per la Cooman?»
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Ron gemette e levò lo sguardo al soffitto.
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«E pare che stia per piovere».
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«Che cosa c’entra con i compiti?» chiese Hermione, le sopracciglia inarcate.
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«Niente» rispose subito Ron, arrossendo sulle orecchie.
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Alle cinque meno cinque Harry salutò gli altri due e s’incamminò verso l’ufficio della Umbridge al terzo piano. Quando bussò alla porta lei disse «Avanti» con voce zuccherosa. Entrò cauto e si guardò attorno.
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Aveva già visto quell’ufficio al tempo dei tre precedenti occupanti. Nei giorni in cui Gilderoy Allock era vissuto lì, era tappezzato dei suoi ritratti sorridenti. Quando l’aveva occupato Lupin, era assai probabile incontrarvi qualche ammaliante Creatura Oscura in una gabbia o in un acquario. Nei giorni di Moody l’impostore, era ingombro di vari strumenti e congegni per riconoscere malefici e occultamenti.
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Adesso però era irriconoscibile. Le superfici piane erano state ricoperte da tovaglie e pizzi. C’erano parecchi vasi pieni di fiori secchi, ciascuno posato sul suo centrino, e su una delle pareti era appesa una collezione di piatti ornamentali, raffiguranti gattini in technicolor, ma ognuno con un fiocco diverso al collo. Erano così orrendi che Harry li fissò costernato finché la professoressa Umbridge non parlò di nuovo.
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«Buonasera, signor Potter».
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Harry trasalì e si guardò attorno. Lì per lì non l’aveva notata perché indossava un completo a fiorami sgargianti che si mimetizzava perfettamente con la tovaglia sul tavolo dietro di lei.
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«’Sera, professoressa Umbridge» rispose impacciato.
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«Prego, si sieda» disse lei, indicando un tavolino ricoperto di pizzo al quale aveva avvicinato una sedia con lo schienale rigido. Un foglio di pergamena bianco era posato sul tavolo, a quel che pareva in sua attesa.
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«Ehm» mormorò Harry senza muoversi. «Professoressa Umbridge. Ehm… prima che cominciamo, io… volevo chiederle un… favore».
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Gli occhi da rospo si strinsero.
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«Oh, davvero?»
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«Be’, io… io faccio parte della squadra di Quidditch di Grifondoro. E venerdì alle cinque dovevo essere al provino per il nuovo Portiere, e mi stavo… mi chiedevo se posso saltare la punizione quella sera e farla… farla un’altra sera… invece…»
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Ben prima di finire la frase seppe che era inutile.
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«Oh, no» rispose la Umbridge, con un sorriso così ampio che pareva avesse appena inghiottito una mosca particolarmente sugosa. «Oh, no, no, no. Questa è la punizione che lei si merita per aver diffuso storie malvagie e maligne per attirare l’attenzione, signor Potter, e le punizioni non possono essere modificate secondo i comodi del colpevole. No, domani alle cinque lei verrà qui, e il giorno dopo, e anche venerdì, e subirà la sua punizione come stabilito. Credo che sia bene che lei perda qualcosa a cui tiene sul serio. Dovrebbe rafforzare la lezione che sto cercando di impartirle».
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Harry sentì il sangue salirgli alla testa e avvertì una serie di tonfi nelle orecchie. Quindi lui raccontava “storie malvagie e maligne per attirare l’attenzione”?
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L’insegnante lo osservava con la testa appena inclinata, sempre con quell’ampio sorriso, come se sapesse esattamente che cosa stava pensando e aspettasse di vedere se avrebbe ricominciato a urlare. Con uno sforzo enorme, Harry distolse lo sguardo da lei, lasciò cadere la borsa dei libri vicino alla sedia con lo schienale rigido e si sedette.
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«Ecco» disse la Umbridge dolcemente, «stiamo già diventando più bravi a controllare i nostri scatti, vero? Ora ricopierà un po’ di frasi per me, signor Potter. No, non con la sua piuma» aggiunse quando Harry si chinò ad aprire la borsa. «Userà una delle mie, una piuttosto speciale. Ecco qui».
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Gli porse una lunga piuma nera e sottile con la punta insolitamente affilata.
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«Voglio che lei scriva Non devo dire bugie» gli sussurrò.
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«Quante volte?» chiese Harry, con una lodevole affettazione di cortesia.
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«Oh, quanto ci vuole perché il messaggio penetri» rispose la Umbridge mielosa. «Cominci».
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Si spostò alla sua scrivania, si sedette e si chinò su una pila di pergamene che sembravano temi da correggere. Harry levò la piuma nera affilata, poi capì che cosa mancava.
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«Non mi ha dato l’inchiostro» osservò.
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«Oh, non le servirà l’inchiostro» disse la professoressa Umbridge, con una vaghissima punta di ilarità nella voce.
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Harry posò la punta della piuma sul foglio e scrisse: Non devo dire bugie.
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Emise un gemito di dolore. Le parole erano comparse sulla pergamena in quello che sembrava scintillante inchiostro rosso. Nello stesso tempo, erano apparse anche sul dorso della mano destra di Harry, incise sulla sua pelle come tracciate da un bisturi: mentre lui era ancora intento a fissare il taglio luccicante, la pelle si richiuse, lasciando il punto dove si era aperta appena più rosso di prima, ma liscio.
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Harry guardò la Umbridge. Lei lo osservava, la larga bocca da rospo stirata in un sorriso.
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«Sì?»
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«Niente» disse Harry piano.
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Tornò a guardare la pergamena, vi posò di nuovo la piuma, scrisse Non devo dire bugie, e sentì una seconda volta il dolore lacerante sul dorso della mano; di nuovo, le parole si erano incise nella sua pelle; di nuovo, si rimarginarono dopo qualche secondo.
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E andò avanti così. Più e più volte Harry scrisse le parole con quello che ben presto capì non essere inchiostro, ma il suo stesso sangue. E più e più volte le parole furono incise sul dorso della sua mano, si rimarginarono, e riapparvero non appena ebbe posato di nuovo la piuma sulla pergamena.
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Il buio cadde oltre la finestra della Umbridge. Harry non chiese quando avrebbe potuto smettere. Non guardò nemmeno l’orologio. Sapeva che lei lo stava osservando in cerca di segnali di debolezza e non voleva mostrarne alcuno, nemmeno se avesse dovuto restare lì fino al mattino a squarciarsi la mano con quella piuma…
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«Venga qui» disse lei, dopo quelle che parvero ore.
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Harry si alzò. La mano era tutta una puntura dolorosa. Quando la guardò, vide che la ferita si era chiusa, ma la pelle era rosso vivo.
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«La mano» disse lei.
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Lui la tese. Lei la prese nella sua. Harry represse un brivido quando lo toccò con le grosse dita tozze cariche di vecchi orribili anelli.
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«Mmm, direi che non ho fatto ancora molta impressione» concluse, sorridendo. «Be’, dovremo riprovare domani sera, vero? Può andare».
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Harry uscì dal suo ufficio senza una parola. La scuola era praticamente deserta; era di sicuro mezzanotte passata. Risalì lentamente il corridoio, poi, quando ebbe voltato l’angolo e fu sicuro che lei non lo sentisse, prese a correre.
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Non aveva avuto tempo di esercitarsi negli Incantesimi Evanescenti, non aveva scritto un solo sogno nel diario, non aveva finito il disegno dell’Asticello e non aveva nemmeno fatto i temi. La mattina dopo saltò la colazione per scribacchiare un paio di sogni inventati per Divinazione, alla prima ora, e fu sorpreso di trovare uno scarmigliato Ron a tenergli compagnia.
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«Come mai non li hai fatti ieri sera?» chiese Harry, mentre Ron fissava disperatamente la sala comune in cerca d’ispirazione. Ron, che era profondamente addormentato quando Harry era tornato nel dormitorio, borbottò di aver fatto qualcos’altro, si chinò sulla sua pergamena e scarabocchiò qualche parola.
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«Questo basterà» stabilì, chiudendo il diario con un tonfo. «Ho detto che ho sognato che mi compravo un paio di scarpe nuove, non può cavarne niente di strano, no?»
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Si affrettarono a raggiungere insieme la Torre Nord.
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«Com’è stata la punizione con la Umbridge? Che cosa ti ha fatto fare?»
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Harry esitò per una frazione di secondo, poi rispose: «Scrivere delle frasi».
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«Non è poi così male, allora, eh?» disse Ron.
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«No».
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«Ehi… m’ero dimenticato… ti ha lasciato libero per venerdì?»
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«No» rispose Harry.
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Ron gemette, solidale.
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Fu un’altra brutta giornata per Harry: riuscì uno dei peggiori a Trasfigurazione, visto che non si era affatto esercitato negli Incantesimi Evanescenti. Dovette rinunciare all’ora di pranzo per completare il disegno dell’Asticello e nel frattempo le professoresse McGranitt, Caporal e Sinistra diedero loro altri compiti, che non aveva alcuna speranza di finire quella sera a causa della seconda punizione con la Umbridge. A coronare il tutto, Angelina Johnson lo cercò di nuovo a cena e quando seppe che non sarebbe riuscito ad andare ai provini, gli disse che non era affatto contenta del suo comportamento e che si aspettava che chi desiderava continuare a far parte della squadra mettesse gli allenamenti al di sopra degli altri impegni.
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«Sono in castigo!» urlò Harry ad Angelina, che si allontanò a grandi passi. «Credi che preferisca restare chiuso in una stanza con quella vecchia rospa invece di giocare a Quidditch?»
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«Almeno sono solo frasi» disse Hermione per consolarlo, mentre Harry si lasciava ricadere sulla panca e guardava il pasticcio di carne e rognone, di cui non aveva più molta voglia. «Non è una punizione così tremenda, davvero…»
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Harry aprì la bocca, la richiuse e annuì. Non sapeva bene perché non voleva dire a Ron e Hermione che cosa succedeva di preciso dalla Umbridge: sapeva solo che non voleva vedere i loro sguardi di orrore; avrebbero fatto sembrare la cosa ancora peggiore e quindi più difficile da affrontare. E poi intuiva vagamente che quella era una faccenda tra lui e la Umbridge, una battaglia privata di volontà, e non intendeva darle la soddisfazione di sapere che si era lamentato.
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«Non posso credere a quanti compiti abbiamo» disse Ron abbacchiato.
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«Be’, perché non hai fatto niente ieri sera?» gli chiese Hermione. «Dov’eri?»
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«Io ero… avevo voglia di fare una passeggiata» rispose Ron, evasivo.
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Harry ebbe la chiara impressione di non essere il solo a nascondere qualcosa.
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Il secondo castigo fu orrendo come il precedente. La pelle sul dorso della mano di Harry si irritò più in fretta e ben presto fu rossa e infiammata. Harry pensò che non sarebbe riuscita a rimarginarsi del tutto ancora a lungo. Ben presto la ferita sarebbe rimasta incisa sulla sua mano e la Umbridge forse sarebbe stata soddisfatta. Non si lasciò sfuggire nemmeno un gemito di dolore, tuttavia, e dal momento in cui entrò nella stanza a quando fu congedato, di nuovo dopo mezzanotte, non disse altro che «buonasera» e «buonanotte».
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La situazione dei suoi compiti però era ormai disperata, e quando tornò alla sala comune di Grifondoro non andò a letto, pur essendo sfinito, ma aprì i libri e cominciò il tema per Piton sulla pietra di luna. Quando ebbe terminato erano le due e mezza. Sapeva di aver fatto un lavoro pessimo, ma non ci poteva far niente; se non avesse consegnato qualcosa, sarebbe stato punito anche da Piton. Poi buttò giù delle risposte alle domande assegnate dalla professoressa McGranitt, mise insieme qualcosa sul corretto trattamento degli Asticelli per la professoressa Caporal e barcollò a letto, dove crollò sulle coperte vestito di tutto punto e si addormentò all’istante.
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Il giovedì passò in una bruma di stanchezza. Pure Ron sembrava molto assonnato, anche se Harry non capiva perché. Il terzo castigo di Harry trascorse come gli altri due, tranne per il fatto che dopo due ore le parole Non devo dire buge non si cancellarono più dal dorso della mano di Harry, ma vi rimasero incise, colando goccioline di sangue. Sentendo che la piuma appuntita aveva smesso per un momento di grattare sulla pergamena, la professoressa Umbridge alzò lo sguardo.
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«Ah» disse dolcemente, facendo il giro della scrivania per osservare la mano. «Bene. Dovrebbe servirle come monito, vero? Per stasera può andare».
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«Devo sempre tornare domani?» chiese Harry, raccogliendo la borsa con la mano sinistra invece che con la destra dolorante.
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«Oh, sì» rispose la professoressa Umbridge, col suo ampio sorriso. «Sì, credo che possiamo imprimere il messaggio un po’ più a fondo con un’altra sera di lavoro».
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Harry non aveva mai pensato prima d’allora di poter odiare un altro insegnante più di Piton, ma tornando alla Torre di Grifondoro dovette ammettere che Piton aveva un valido concorrente. È cattiva, pensò, salendo una scalinata per andare al settimo piano, è una perfida, perversa vecchia pazza…
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«Ron?»
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In cima alle scale, aveva girato a destra e quasi era andato a sbattere contro Ron, appostato dietro una statua di Lachlan l’Allampanato, con il suo manico di scopa stretto in pugno. Fece un gran balzo di sorpresa quando vide Harry e cercò di nascondere la sua nuova Tornado Undici dietro la schiena.
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«Che cosa fai?»
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«Ehm… niente. E tu?»
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Harry lo guardò accigliato.
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«Andiamo, a me puoi dirlo! Perché ti nascondi?»
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«Io… io mi nascondo da Fred e George, se vuoi saperlo» disse Ron. «Sono appena passati con un gruppo del primo anno, scommetto che stanno sperimentando dell’altra roba su di loro. Voglio dire, adesso non possono farlo in sala comune, no? C’è Hermione».
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Parlava velocissimo, in modo febbrile.
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«Ma come mai hai la scopa, non sei andato a volare, no?» chiese Harry.
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«Io… be’… be’, va bene, te lo dico, ma tu non ridere, d’accordo?» disse Ron sulla difensiva, diventando ogni secondo più rosso. «Io… io pensavo di fare il provino per il posto da Portiere di Grifondoro adesso che ho una scopa decente. Ecco. Avanti. Ridi».
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«Non sto ridendo» rispose Harry. Ron sbatté le palpebre. «È un’ottima idea! Sarebbe forte se entrassi nella squadra! Non ti ho mai visto giocare da Portiere, sei bravo?»
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«Non sono male» disse Ron, che parve immensamente sollevato dalla reazione di Harry. «Charlie, Fred e George mi facevano sempre stare in porta quando si allenavano durante le vacanze».
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«Allora questa sera ti sei allenato?»
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«Tutte le sere da martedì… da solo, però. Sto cercando di stregare le Pluffe perché vengano da me, ma non è facile e non so quanto servirà». Ron era nervoso e preoccupato. «Fred e George moriranno dal ridere quando mi presenterò ai provini. Da quando sono diventato prefetto non la smettono di prendermi in giro».
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«Vorrei esserci» disse Harry amareggiato mentre si avviavano insieme verso la sala comune.
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«Sì, anch’io… Harry, che cos’hai alla mano?»
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Harry, che si era appena grattato il naso con la mano destra libera, cercò di nasconderla, ma ebbe tanto successo quanto Ron con la sua Tornado.
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«È solo un taglio… non è niente… è…»
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Ma Ron afferrò l’avambraccio di Harry e sollevò il dorso della sua mano all’altezza degli occhi. Ci fu una pausa, durante la quale fissò le parole incise nella pelle; poi, con l’aria di sentirsi male, lasciò andare la mano.
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«Credevo che ti desse solo delle frasi da scrivere».
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Harry esitò, ma dopotutto Ron era stato sincero con lui, così gli raccontò la verità sulle ore che aveva trascorso nell’ufficio della Umbridge.
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«Quella vecchia megera!» sussurrò Ron disgustato fermandosi davanti alla Signora Grassa, che sonnecchiava tranquilla con la testa contro la cornice. «È una squilibrata! Vai dalla McGranitt, dille qualcosa!»
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«No» ribatté subito Harry. «Non le darò la soddisfazione di sapere che è riuscita nel suo intento».
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«Riuscita? Non puoi permettere che la passi liscia!»
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«Non so quanto potere ha la McGranitt su di lei» disse Harry.
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«Silente, allora, dillo a Silente!»
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«No» rispose Harry in tono piatto.
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«Perché no?»
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«Ha già abbastanza grane a cui pensare». Ma non era quello il vero motivo: Harry non aveva intenzione di andare a chiedere aiuto a Silente quando Silente non gli rivolgeva la parola da giugno.
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«Be’, secondo me dovresti» insisté Ron, ma fu interrotto dalla Signora Grassa, che li aveva osservati sonnacchiosa e ora sbottò: «Volete dirmi la parola d’ordine o devo stare sveglia tutta la notte ad aspettare che finiate di cianciare?»
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Il venerdì cominciò imbronciato e zuppo come il resto della settimana. Harry guardò automaticamente verso il tavolo degli insegnanti quando entrò nella Sala Grande, ma senza alcuna vera speranza di vedere Hagrid, e rivolse subito la mente ai problemi più pressanti che lo affliggevano, come la pila di compiti ormai simile a una montagna e la prospettiva di un’altra punizione della Umbridge.
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Due cose sostennero Harry quel giorno. Il pensiero che era quasi la fine della settimana; e il fatto che, per quanto terribile dovesse essere l’ultimo castigo con la Umbridge, dalla finestra del suo ufficio si vedeva da lontano il campo di Quidditch, e con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a scorgere qualcosa del provino di Ron. Raggi di luce piuttosto deboli, era vero, ma Harry era grato per qualunque cosa potesse illuminare la sua attuale oscurità; non aveva mai passato una prima settimana di scuola peggiore a Hogwarts.
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La sera alle cinque bussò alla porta dell’ufficio della professoressa Umbridge per quella che sperava essere l’ultima volta, e gli fu detto di entrare. La pergamena bianca era pronta per lui sul tavolino coperto di pizzo, la piuma nera affilata lì accanto.
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«Sa che cosa fare, signor Potter» disse la Umbridge, sorridendogli dolcemente.
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Harry prese la piuma e guardò oltre la finestra. Se spostava la sedia di appena qualche centimetro a destra… Con la scusa di avvicinarsi al tavolo, ci riuscì. Ora vedeva da lontano la squadra di Quidditch di Grifondoro che volteggiava su e giù per il campo e una mezza dozzina di sagome nere ai piedi delle tre alte porte, evidentemente in attesa del loro turno per fare i provini. Era impossibile dire quale fosse Ron da quella distanza.
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Non devo dire bugie, scrisse Harry. Il taglio sul dorso della mano destra si aprì e riprese a sanguinare.
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Non devo dire bugie. Il taglio si fece più profondo; pungeva e bruciava.
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Non devo dire bugie. Il sangue gli colò lungo il polso.
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Azzardò un’altra occhiata fuori dalla finestra. Chiunque difendesse la porta in quel momento stava facendo un pessimo lavoro. Katie Bell segnò due volte nei pochi secondi in cui Harry si arrischiò a guardare. Sperando intensamente che il Portiere non fosse Ron, Harry posò di nuovo lo sguardo sulla pergamena macchiata di sangue.
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Non devo dire bugie.
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Non devo dire bugie.
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Guardava in su tutte le volte che pensava di poter rischiare: quando sentiva il grattare della piuma della Umbridge o l’aprirsi di un cassetto della scrivania. La terza persona a sottoporsi alla prova fu decisamente brava, la quarta fu terribile, la quinta schivò un Bolide benissimo ma poi si lasciò sfuggire una parata facile. Il cielo diventava più scuro e Harry dubitò di riuscire a vedere la sesta e la settima prova.
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Non devo dire bugie.
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Non devo dire bugie.
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La pergamena luccicava di gocce di sangue e il dorso della mano gli bruciava di dolore. Quando Harry alzò di nuovo lo sguardo, era calata la notte e il campo di Quidditch non si distingueva più.
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«Vediamo se ha capito il messaggio, d’accordo?» disse la voce stucchevole della Umbridge un’ora dopo.
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Avanzò verso di lui e tese le corte dita coperte di anelli per prendergli il braccio. E quando lo afferrò per osservare le parole ora incise nella sua pelle, il dolore esplose, non sul dorso della mano, ma nella cicatrice sulla fronte. Nello stesso momento, Harry avvertì una sensazione del tutto insolita attorno al diaframma.
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Liberò il braccio dalla presa e balzò in piedi, fissandola. Lei gli restituì lo sguardo, con un sorriso che le stirava la bocca larga e molle.
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«Sì, fa male, vero?» chiese, soave.
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Lui non replicò. Il cuore gli batteva forte e rapido. Stava parlando della sua mano o sapeva che cosa aveva appena sentito sulla fronte?
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«Be’, credo di aver raggiunto l’obiettivo, signor Potter. Può andare».
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Harry raccolse la borsa dei libri e uscì dalla stanza più veloce che poté.
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Rimani calmo, si disse filando su per le scale. Rimani calmo, non vuol dire per forza quello che credi…
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«Mimbulus mimbletonia!» disse ansante alla Signora Grassa.
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Un gran fragore lo accolse. Ron gli venne incontro correndo, con un sorriso da orecchio a orecchio, rovesciandosi addosso un calice di Burrobirra.
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«Harry, ce l’ho fatta, sono Portiere!»
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«Che cosa? Oh… magnifico!» rispose Harry cercando di sorridere in modo naturale, mentre il cuore continuava a correre e la mano pulsava e sanguinava.
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«Prendi una Burrobirra». Ron gli infilò in mano una bottiglia. «Non ci posso credere… dov’è andata Hermione?»
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«È là». Fred, tracannando a sua volta una Burrobirra, indicò una poltrona vicino al fuoco. Hermione vi sonnecchiava, con la bevanda pericolosamente inclinata in mano.
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«Be’, prima ha detto che era contenta» disse Ron, un po’ contrariato.
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«Lasciala dormire» si affrettò a dire George. Ci volle qualche istante perché Harry notasse che parecchi bambini del primo anno riuniti attorno a loro recavano inconfondibili segni di recenti emorragie nasali.
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«Vieni qui, Ron, e vedi un po’ se la vecchia divisa di Oliver ti va bene» gridò Katie Bell, «possiamo togliere il suo nome e metterci il tuo…»
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Dopo che Ron si fu allontanato, Angelina avanzò a grandi passi verso Harry.
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«Mi dispiace se sono stata un po’ dura con te, Potter» disse bruscamente. «È faticosa, questa faccenda di dirigere la squadra, sai, comincio a pensare di essere stata ingiusta con Baston, qualche volta». Osservò Ron da sopra l’orlo del suo calice con un vago cipiglio.
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«Senti, lo so che è il tuo migliore amico, ma non è un fenomeno» disse senza giri di parole. «Credo che con un po’ di allenamento andrà bene, però. Viene da una famiglia di buoni giocatori. Conto sul fatto che rivelerà un po’ più di talento di quello che ha dimostrato oggi, a essere sincera. Vicky Frobisher e Geoffrey Hooper hanno volato meglio tutti e due, stasera, ma Hooper è una piaga, si lamenta sempre, e Vicky fa parte di ogni genere di gruppo. Ha ammesso anche lei che se gli allenamenti si accavallassero con il Club di Incantesimi metterebbe il Club al primo posto. Comunque, abbiamo un allenamento domani alle due, quindi fai in modo di esserci, stavolta. E fammi un favore, aiuta Ron più che puoi, ok?»
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Harry annuì, e Angelina tornò da Alicia Spinnet. Harry andò a sedersi vicino a Hermione, che si svegliò con un sussulto quando lui posò la borsa.
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«Oh, Harry, sei tu… è bello, per Ron, vero?» bofonchiò. «Sono così… così… così stanca» sbadigliò. «Sono stata sveglia fino all’una a fare altri berretti. Spariscono in un soffio!»
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A guardar bene, Harry vide che c’erano berretti di lana nascosti per tutta la stanza, dove elfi incauti potevano raccoglierli senza rendersene conto.
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«Grandioso» disse distrattamente; se non l’avesse raccontato subito a qualcuno, sarebbe esploso. «Senti, Hermione. Sono appena stato su nell’ufficio della Umbridge e mi ha toccato il braccio…»
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Hermione ascoltò con attenzione. Quando Harry ebbe finito, disse lentamente: «Temi che Tu-Sai-Chi possa controllarla come controllava Raptor?»
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«Be’» rispose Harry, abbassando la voce, «è possibile, no?»
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«Immagino di sì» disse Hermione, ma suonava poco convinta. «Però non credo che riesca a possederla come possedeva Raptor, voglio dire, ora è di nuovo vivo e vegeto, no? Ha il suo corpo, non ha bisogno di usare quello di un altro. Potrebbe controllarla con la Maledizione Imperius, però…»
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Harry osservò per un attimo Fred, George e Lee Jordan che facevano i giocolieri con le bottiglie vuote di Burrobirra. Poi Hermione disse: «Ma l’anno scorso la cicatrice ti faceva male senza che nessuno ti toccasse. E Silente non ha detto che dipendeva da quello che provava Tu-Sai-Chi in quel momento? Voglio dire, forse quello che senti adesso non c’entra affatto con la Umbridge, forse è solo una coincidenza che sia successo mentre eri con lei».
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«È cattiva» disse Harry in tono piatto. «Perversa».
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«È tremenda, sì, ma… Harry, credo che dovresti dire a Silente che ti fa male la cicatrice».
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Era la seconda volta in due giorni che gli consigliavano di andare da Silente e la risposta che Harry diede a Hermione fu la stessa che aveva dato a Ron.
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«Non lo voglio seccare con questa faccenda. Come hai appena detto, non è una gran cosa. Mi ha fatto male un po’ sì un po’ no per tutta l’estate… stasera è stato solo peggio, tutto qui…»
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«Harry, sono sicura che Silente vorrebbe essere seccato per questa…»
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«Sì» sbottò Harry prima di riuscire a trattenersi, «è la sola parte di me che interessa a Silente, vero, la mia cicatrice?»
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«Non dire così, non è vero!»
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«Credo che scriverò a Sirius, per sapere che cosa ne pensa…»
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«Harry, non puoi scrivere una cosa del genere in una lettera!» disse Hermione, preoccupata. «Non ti ricordi? Moody ci ha detto di stare attenti! Non siamo più sicuri che i gufi non vengano intercettati!»
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«Va bene, va bene, allora non glielo dico!» Irritato, Harry si alzò. «Vado a dormire. Dillo tu a Ron, d’accordo?»
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«Oh, no» disse Hermione, sollevata, «se vai tu vuol dire che posso andare anch’io senza essere scortese. Sono completamente sfinita e domani voglio fare altri berretti. Senti, puoi aiutarmi se ti va, è divertente, sto migliorando, so fare i disegni e i pompon e un sacco di cose, adesso».
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Harry la guardò: era radiosa di gioia, e lui cercò di sembrare almeno un po’ tentato dalla sua offerta.
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«Ehm… no, non credo, grazie» rispose. «Ehm… non domani. Ho un mucchio di compiti da fare…»
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E si trascinò fino alla scala dei maschi, lasciandola un po’ delusa.
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